martedì, maggio 03, 2011

Le aporie del neoliberismo: manca una teoria del potere (e delle istituzioni)

Milton Friedman in una copertina di Time

Il primato della politica, non dell’economia

di Paolo Bonetti (Critica liberale, aprile 2011)

La prima edizione americana del libro di Milton Friedman, Capitalismo e libertà, è del 1962, in piena età kennediana: nell’introduzione (si veda la traduzione italiana, pubblicata l’anno scorso, con prefazione di Antonio Martino, da IBLLibri) l’autore contesta subito un passo del discorso d’insediamento di Kennedy alla Casa Bianca, quello in cui il neopresidente afferma: «Non chiedetevi cosa il vostro paese possa fare per voi, chiedetevi cosa voi potete fare per il vostro paese». Per l’economista, «nessuna delle due proposizioni dell’alternativa offerta da Kennedy descrive un rapporto fra il cittadino che sia degno degli ideali di uomini liberi che vivono in una società libera». La prima ha un sapore paternalista che «lascia intendere che il governo è il tutore e il cittadino il discepolo»; la seconda è, addirittura, una formula organicista che vede il governo come «un signore o una divinità», mentre il cittadino regredisce al ruolo di servo o di fedele. Per il liberale/liberista Friedman, il paese è soltanto «l’insieme degli individui che lo compongono, e non un’entità che li trascende». In quanto al governo, esso non è che uno strumento per mezzo del quale i cittadini possono esercitare la loro libertà di perseguire scopi del tutto privati, le cui provvisorie e casuali convergenze debbono essere unicamente determinate dal libero gioco del mercato: si deve limitare, quindi, a tutelare le nostre libertà dai pericoli esterni e da quelli interni. Una concezione, questa dello studioso di Chicago, di rigido individualismo liberale, un po’ attenuata dal richiamo a un «comune retaggio» e a «comuni tradizioni».

Diciamo subito che sulla critica all’organicismo politico non si può che essere d’accordo, ma ci si deve chiedere se questo liberalismo così esasperatamente individuali- sta si sia mai incarnato in una qualche realtà storica o non sia piuttosto uno schema ideologico tanto suggestivo quanto irrealizzabile, dal momento che i regimi liberali effettivamente esistenti o esistiti, hanno sempre coniugato le libertà individuali, da quella religiosa a quella economica, con un preciso quadro istituzionale, il cui mantenimento è essenziale per il pieno godimento di queste libertà. In questo senso, aveva pienamente ragione Kennedy quando invitava i cittadini a chiedersi che cosa potevano fare per il loro paese, che è appunto quell’insieme di istituzioni non solo giuridiche, ma anche morali, che serve da indispensabile supporto all’esercizio non astratto e campato nel vuoto di tutte le nostre libertà. Che cosa sarebbe mai la stessa libertà economica se essa non si esercitasse, come sembra ritenere lo stesso Friedman, in un quadro di ben articolate regole giuridiche? Ma non è solo questione dileggi e regolamenti, poiché le istituzioni del liberalismo vivono e si mantengono soltanto se c’è nei cittadini un pathos morale verso le stesse, il riconoscimento, più o meno consapevole, che c’è, nell’etica liberale, qualcosa che trascende la mera ricerca del benessere individuale e della sicurezza. Troppo spesso si ritiene che il riconoscimento di alcuni obblighi morali comuni costituisca un ostacolo all’esercizio dei nostri diritti, e che la consapevole e libera sottomissione degli individui alle istituzioni ci conduca, inevitabilmente, verso lo Stato etico e un governo dispotico. Ma «fare qualcosa per il nostro paese» significa che esiste una comunità liberale, nella quale la questione dei diritti s’intreccia con quella dei doveri che ci competono in quanto individui che superano di continuo la semplice dimensione dell’utile economico.

Il welfare state, una della più grandi conquiste civili del Novecento, non ha generato, contrariamente a quello che sostengono i neoliberisti, un grave deperimento della società aperta per far posto a un soffocante dirigismo governativo che, dal campo economico, si è poi esteso a tuffi gli altri settori della vita sociale. Gli interventi della politica per cercare di riequilibrare diseguaglianze moralmente inaccettabili per la coscienza civile del nostro tempo, giusti o sbagliati che siano stati nelle particolari contingenze storiche in cui si sono verificati, avevano lo scopo di dare a tuffi maggiori opportunità di far valere doti intellettuali e morali che rischiavano di restare irrealizzate per condizioni di vita economicamente e culturalmente inadeguate alla loro manifestazione e al loro sviluppo. Nell’essenza del liberalismo c’è un primato della politica che gli economisti e gli ideologi del neoliberismo non riescono a comprendere, perché la loro libertà non è quella di individui consapevoli che lottano assieme, fra mille tentativi ed errori, per costruire il loro futuro, ma piuttosto quella di un preteso ordine naturale che ignora il ruolo attivo delle istituzioni nel garantire, promuovere e allargare le libertà.

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