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mercoledì, settembre 28, 2011

Democrazia nell'impresa e nella società. La proposta di Bruno Jossa

La cooperativa Mondragon, situata nei Paesi Baschi, rappresenta un caso da manuale di impresa gestita dai lavoratori.

JOSSA B.: Esiste un’alternativa al capitalismo? L’impresa democratica e l’attualità del marxismo, Manifestolibri, Roma, 2010, pp. 446, ISBN: 978-88-7285-644-4, € 36,00.

Il libro di Bruno Jossa costituisce uno dei rari tentativi volti a proporre una forma di organizzazione economica alternativa al capitalismo e si muove nel solco tracciato da autori come Meade (1989), Roemer (1994), Schweickart (2002), che hanno presentato in un recente passato proposte di matrice socialista.

L’autore delinea un sistema produttivo composto in prevalenza da imprese gestite dai lavoratori, definite equivalentemente imprese democratiche o cooperative di produzione, in cui la sovranità appartiene ai lavoratori. Questi ultimi eleggono periodicamente gli amministratori che di fatto gestiscono correntemente l’impresa, mentre l’assemblea dei soci viene investita dei fatti più rilevanti quali l’approvazione del bilancio, la nomina o revoca degli amministratori, i piani strategici e quelli di natura straordinaria. Secondo Jossa il finanziamento delle cooperative dovrebbe essere esclusivamente esterno. Non vi è apporto di capitale di rischio da parte dei soci, anche se essi, al pari dei finanziatori terzi, possono prestare capitali all’impresa restando, quindi, titolari di un credito. Il salario viene abolito e la retribuzione dei soci è costituita dal surplus, dato dalla differenza tra i ricavi e i costi di gestione. In questi ultimi sono inclusi, naturalmente, gli interessi pagati ai creditori sul capitale preso in prestito. Il residuo per i soci è così costituito, di fatto, dai redditi da lavoro e dal profitto.

L’eliminazione dell’autofinanziamento è necessaria per tenere distinto in modo costante il patrimonio dell’impresa da quello dei soci e per tenere separati i redditi di capitale da quelli da lavoro ed, eventualmente, da profitto. Al momento dell’uscita dall’impresa i soci conservano il diritto al rimborso dei loro eventuali crediti non ancora rimborsati, ma non possono vantare alcuna pretesa su eventuali residue plusvalenze dell’impresa. Con la forma di impresa proposta si ha il ribaltamento dello schema che è tipico del capitalismo. In essa, infatti, è il lavoro ad assumere il capitale, remunerandolo anticipatamente rispetto alla realizzazione e alla suddivisione del sovrappiù tra i lavoratori. La proprietà dell’impresa democratica spetta al collettivo dei soci e quindi, a rigore, non è una proprietà pubblica. Il singolo socio non può vantare diritti diversi da quelli di voto, nelle sedi stabilite, e di ripartizione del residuo.

Secondo l’autore un’economia di questo tipo non può definirsi capitalistica, perché inverte i rapporti di forza tra capitale e lavoro, ponendo quest’ultimo in una situazione di preminenza. Si tratta quindi di una forma di socialismo, perché viene abolito il lavoro salariato, ritenuto la caratteristica fondamentale del capitalismo. Poiché le imprese sono del tutto autonome e operano secondo le regole del mercato, istituto che mantiene tutte le sue funzioni, si tratterebbe di una forma di socialismo di mercato (cfr. anche Jossa, 2010). Un tale sistema sarebbe coerente col pensiero di Marx, perché supererebbe una delle contraddizioni fondamentali del capitalismo, la soggezione del lavoro al capitale e, inoltre, costituirebbe a pieno titolo una possibile fase di transizione verso il comunismo, prevista dai teorici del marxismo e tuttavia mai efficacemente descritta.

Quali sono i vantaggi di un sistema economico di questo tipo? Jossa ne descrive alcuni di estrema importanza: in primo luogo la democrazia economica rafforza e rende effettiva la democrazia politica; risulta ridotta l’alienazione del lavoro; vengono meno i presupposti dello sfruttamento. Inoltre è prevedibile un aumento della produttività del lavoro, perché il reddito dei soci è direttamente e interamente commisurato ai risultati. Un ulteriore aumento dell’efficienza del lavoro deriverebbe dal miglioramento del capitale umano, cioè dalla crescita delle conoscenze e abilità professionali dei lavoratori, perché i soci avrebbero un interesse diretto a investire nella loro formazione, essendo ora il lavoro, e non il capitale, il fattore specifico all’impresa. Si avrebbe, infine, una riduzione della disoccupazione, perché verrebbero meno due delle principali cause di essa: l’inesistenza del salario eliminerebbe la disoccupazione “neoclassica” da alto costo del lavoro, mentre la sovranità dei lavoratori, rendendo possibile l’adeguamento dell’orario di lavoro all’intensità della domanda di prodotti di ogni impresa, eliminerebbe la disoccupazione “keynesiana”, spalmando gli effetti delle crisi di domanda su tutti i lavoratori.

Nella terza parte del volume, dedicata alla teoria della transizione al socialismo, vengono abbozzati i meccanismi che dovrebbero condurre al nuovo modo di produzione fondato sull’impresa democratica. L’autore indica tre “vie”, la prima delle quali è costituita da agevolazioni di natura fiscale e creditizia che lo Stato dovrebbe concedere alle cooperative per facilitare la trasformazione verso tale forma delle imprese capitalistiche. La giustificazione deriverebbe dal carattere “meritorio” dell’impresa democratica che, rispetto a quella tradizionale, presenta i vantaggi che sono stati in precedenza elencati, i quali dovrebbero semplicemente essere riconosciuti dallo Stato. Il secondo meccanismo è di natura completamente diversa e consiste nella trasformazione in cooperative delle imprese tradizionali in gravi difficoltà e, di fatto, abbandonate dai proprietari. La terza via rappresenta invece un approccio radicale alla questione e consiste in una legge “del parlamento che trasformi le azioni delle imprese esistenti in obbligazioni di pari valore e proibisca nel contempo, nei limiti in cui ciò sia ritenuto opportuno, l’assunzione di lavoro salariato” (p. 271).

Si diceva all’inizio della peculiarità dell’opera di Jossa, che affronta un campo poco esplorato e che per questo motivo, soprattutto nelle indicazioni di policy, deve essere vista come un primo coraggioso tentativo di avvicinamento alle questioni proposte e uno stimolo ad una vasta discussione da parte degli intellettuali, a cui l’autore, sulle orme del pensiero di Hayek, affida il ruolo decisivo di selezione e diffusione delle idee che troveranno poi effettiva applicazione. Di seguito vengono indicati i punti che a mio parere dovrebbero essere oggetto di un più ampio dibattito. Lo stesso autore avverte che il sistema economico proposto rappresenta un passo avanti rispetto al capitalismo, ma è lontano dall’avere le caratteristiche di un mondo perfetto. Come è stato mostrato da Vanek (1970) e Meade (1974), le cooperative possono dare luogo a monopoli o ad altre forme di potere di mercato, al pari delle imprese tradizionali. Si potrebbero quindi avere casi di cooperative ricche e potenti, in grado di assicurare ai soci redditi molto alti, contrapposti a situazioni con redditi ai limiti della sussistenza. Verrebbero di conseguenza a replicarsi condizioni non dissimili da quelle che si riscontrano nelle economie capitalistiche e andrebbe quindi mantenuto e forse rafforzato il ruolo redistributivo dello Stato.

Punti di particolare delicatezza riguardano la fase di transizione verso un sistema economico costituito solo o in modo prevalente da cooperative. L’autore avverte di essere a favore di un passaggio graduale, e due delle tre “vie” indicate (ragionevoli agevolazioni dello Stato a favore delle cooperative e trasformazione in cooperative delle imprese capitalistiche in crisi) sono perfettamente coerenti con la progressività della transizione. Ma come interpretare la terza “via” che pure egli prospetta, quella di una decisione parlamentare che trasformi le azioni in obbligazioni e abolisca il lavoro salariato? In realtà essa può ancora essere in linea con la gradualità della trasformazione, se rappresenta la ratifica finale di un processo evolutivo che abbia raccolto un vastissimo consenso e sia suffragata da una situazione di fatto in cui le indicazioni del mercato siano univoche. Ciò può avvenire a seguito di una fase che porti ad una notevole riduzione delle disuguaglianze dei redditi e della ricchezza, dovuta non solo a politiche ad hoc da parte dello Stato, ma anche ad una crescita dell’importanza relativa del lavoro. Quest’ultimo fenomeno richiede che si verifichino cambiamenti strutturali dell’economia tali da provocare una crescita del contenuto di conoscenza del lavoro che non sia incorporabile nel capitale (o lo sia solo in misura limitata). Sarebbe quindi il riequilibrio dei rapporti di potere tra lavoro e capitale a rendere possibile la significativa espansione delle imprese gestite dai lavoratori auspicata da Jossa.

BIBLIOGRAFIA

JOSSA B. (2010), “Sulla transizione dal capitalismo all’autogestione”, Moneta e Credito, vol. 63 n. 250, pp. 119-155.

MEADE J.E. (1974), “Labor-managed firms in conditions of imperfect competition”, The Economic Journal, vol. 84 n. 336, pp. 817-824.

—— —— (1989), Agathotopia. The economics of partnership, Aberdeen University Press, Aberdeen; trad. it.: Agathotopia. L’economia della partnership, Feltrinelli, Milano, 1989.

ROEMER. J.E. (1994), A future for socialism, Harvard University Press, Cambridge (MA).

SCHWEICKART D. (2002), After capitalism, Rowmarr & Littlefield, Lanham (MD).

VANEK J. (1970), The general theory of labour-managed market economies, Cornell University Press, Ithaca (NY).

Autore: Gaetano Cuomo (Università di Napoli “Federico II”) e-mail: gaetano.cuomo@unina.it

Fonte: Moneta e Credito, vol. 64 n. 254 (2011), 177-180 http://scistat.cilea.it/index.php/MonetaeCredito/article/view/344/185

© Associazione Paolo Sylos Labini

martedì, maggio 03, 2011

Le aporie del neoliberismo: manca una teoria del potere (e delle istituzioni)

Milton Friedman in una copertina di Time

Il primato della politica, non dell’economia

di Paolo Bonetti (Critica liberale, aprile 2011)

La prima edizione americana del libro di Milton Friedman, Capitalismo e libertà, è del 1962, in piena età kennediana: nell’introduzione (si veda la traduzione italiana, pubblicata l’anno scorso, con prefazione di Antonio Martino, da IBLLibri) l’autore contesta subito un passo del discorso d’insediamento di Kennedy alla Casa Bianca, quello in cui il neopresidente afferma: «Non chiedetevi cosa il vostro paese possa fare per voi, chiedetevi cosa voi potete fare per il vostro paese». Per l’economista, «nessuna delle due proposizioni dell’alternativa offerta da Kennedy descrive un rapporto fra il cittadino che sia degno degli ideali di uomini liberi che vivono in una società libera». La prima ha un sapore paternalista che «lascia intendere che il governo è il tutore e il cittadino il discepolo»; la seconda è, addirittura, una formula organicista che vede il governo come «un signore o una divinità», mentre il cittadino regredisce al ruolo di servo o di fedele. Per il liberale/liberista Friedman, il paese è soltanto «l’insieme degli individui che lo compongono, e non un’entità che li trascende». In quanto al governo, esso non è che uno strumento per mezzo del quale i cittadini possono esercitare la loro libertà di perseguire scopi del tutto privati, le cui provvisorie e casuali convergenze debbono essere unicamente determinate dal libero gioco del mercato: si deve limitare, quindi, a tutelare le nostre libertà dai pericoli esterni e da quelli interni. Una concezione, questa dello studioso di Chicago, di rigido individualismo liberale, un po’ attenuata dal richiamo a un «comune retaggio» e a «comuni tradizioni».

Diciamo subito che sulla critica all’organicismo politico non si può che essere d’accordo, ma ci si deve chiedere se questo liberalismo così esasperatamente individuali- sta si sia mai incarnato in una qualche realtà storica o non sia piuttosto uno schema ideologico tanto suggestivo quanto irrealizzabile, dal momento che i regimi liberali effettivamente esistenti o esistiti, hanno sempre coniugato le libertà individuali, da quella religiosa a quella economica, con un preciso quadro istituzionale, il cui mantenimento è essenziale per il pieno godimento di queste libertà. In questo senso, aveva pienamente ragione Kennedy quando invitava i cittadini a chiedersi che cosa potevano fare per il loro paese, che è appunto quell’insieme di istituzioni non solo giuridiche, ma anche morali, che serve da indispensabile supporto all’esercizio non astratto e campato nel vuoto di tutte le nostre libertà. Che cosa sarebbe mai la stessa libertà economica se essa non si esercitasse, come sembra ritenere lo stesso Friedman, in un quadro di ben articolate regole giuridiche? Ma non è solo questione dileggi e regolamenti, poiché le istituzioni del liberalismo vivono e si mantengono soltanto se c’è nei cittadini un pathos morale verso le stesse, il riconoscimento, più o meno consapevole, che c’è, nell’etica liberale, qualcosa che trascende la mera ricerca del benessere individuale e della sicurezza. Troppo spesso si ritiene che il riconoscimento di alcuni obblighi morali comuni costituisca un ostacolo all’esercizio dei nostri diritti, e che la consapevole e libera sottomissione degli individui alle istituzioni ci conduca, inevitabilmente, verso lo Stato etico e un governo dispotico. Ma «fare qualcosa per il nostro paese» significa che esiste una comunità liberale, nella quale la questione dei diritti s’intreccia con quella dei doveri che ci competono in quanto individui che superano di continuo la semplice dimensione dell’utile economico.

Il welfare state, una della più grandi conquiste civili del Novecento, non ha generato, contrariamente a quello che sostengono i neoliberisti, un grave deperimento della società aperta per far posto a un soffocante dirigismo governativo che, dal campo economico, si è poi esteso a tuffi gli altri settori della vita sociale. Gli interventi della politica per cercare di riequilibrare diseguaglianze moralmente inaccettabili per la coscienza civile del nostro tempo, giusti o sbagliati che siano stati nelle particolari contingenze storiche in cui si sono verificati, avevano lo scopo di dare a tuffi maggiori opportunità di far valere doti intellettuali e morali che rischiavano di restare irrealizzate per condizioni di vita economicamente e culturalmente inadeguate alla loro manifestazione e al loro sviluppo. Nell’essenza del liberalismo c’è un primato della politica che gli economisti e gli ideologi del neoliberismo non riescono a comprendere, perché la loro libertà non è quella di individui consapevoli che lottano assieme, fra mille tentativi ed errori, per costruire il loro futuro, ma piuttosto quella di un preteso ordine naturale che ignora il ruolo attivo delle istituzioni nel garantire, promuovere e allargare le libertà.

domenica, febbraio 03, 2008

I nipotini di Simon: prove tecniche di dialogo.

Buone notizie per chi pensa che sia possibile (oltre che auspicabile) un incontro fra la scienza organizzativa e l’economia istituzionale ed evolutiva. Peccato non poter andare a Cipro…

James March,
uno dei padri della teoria organizzativa e della behavioural economics

* * *

The Fourth Organization Studies Summer Workshop:

Embracing Complexity:
Advancing Ecological Understanding in Organization Studies

57 June 2008, Pissouri, Cyprus

Convenors:

Kevin J. Dooley, Arizona State University, USA
Lloyd Sandelands
, University of Michigan, USA
Haridimos Tsoukas
, ALBA, Greece & University of Warwick, UK

Keynote Speakers:

Michael D. Cohen, University of Michigan, USA, co-author of Harnessing Complexity: Organizational Implications of a Scientific Frontier
Brian Goodwin
, Schumacher College, UK, co-author of Signs of Life: How Complexity Pervades Biology
Peter Harries-Jones
, York University, Canada, author of A Recursive Vision: Ecological Understanding and Gregory Bateson
Katherine Hayles, University of California-Los Angeles (UCLA), USA, author of How we Became Posthuman: Virtual Bodies in Cybernetics, Literature and Informatics

Geoffrey Hodgson, University of Hertfordshire, UK, Editor-in-Chief of Journal of Institutional Economics, author of How Economics Forgot History
Frederick Turner, University of Texas at Dallas, USA, author of Culture of Hope: A New Birth of the Classical Spirit

About the Topic

"We are observing the birth of a science that is no longer limited to idealized and simplified situations but reflects the complexity of the real world, a science that views us and our creativity as part of a fundamental trend present at all levels of nature."
Ilya Prigogine, The End of Certainty: Time, Chaos, and the New Laws of Nature

"Once we begin to think in ecological terms, we shall soon learn that every niche or habitat is one of its own kind, and that its demands call for a careful eye to its particular, local, and timely circumstances. The Newtonian view encouraged hierarchy and rigidity, standardization and uniformity: an ecological perspective emphasizes, rather, differentiation and diversity, equity and adaptability."
Stephen Toulmin, Cosmopolis: The Hidden Agenda of Modernity

At the end of The Social Psychology of Organizing, Karl Weick urges practitioners to "complicate" themselves. A complex practitioner sees patterns, says Weick, a less complex one misses. It is, in effect, a variation of Ashby's law of requisite variety, which Weick often refers to in his book: only complexity can cope with complexity. But Weick directs this particular advice not only to practitioners: organization theorists, too, need to acknowledge the complexity of their object of study – organization(s) – and reflect it in their theoretical frameworks and research designs. Indeed, the entire The Social Psychology of Organizing may be seen in such terms: how social systems in general, and organizations in particular, might be rethought in terms of processes; how emergence is an irreducible part of organization; how it is more complex to think in terms of verbs than nouns; and how thinking is complexified when it embraces ambivalence and paradox. Weick invites us to see organization not merely as a system of authoritative allocation of resources, but also as a self-generating pattern – a system of immanently generated order. His notion of organizing makes this concept suitable for the analysis of socioeconomic phenomena at different levels: from small groups, right up to large-scale processes of socioeconomic change.

Similar themes are echoed in James March's work. Issues of ambiguity, retrospective sensemaking, confused and unstable preferences, negotiated goals, and limited rationality have been consistently highlighted in March's research. The vocabulary may be different from that of Weick but the outcome is similar: to obtain a more complex understanding of what organizations are and how they function. For March, rationality is not only bounded but, also, adaptive, contextual and retrospective. Organizations resemble more garbage cans than neat pyramids. Reason is not omniscient – it is developmental, experiential and embedded in social practices. Ambiguity is part of the human condition; individuals are both observers and participants in the decision making processes they are part of.


Karl Weick, ovvero l'«organizzare» in evoluzione


March and Weick have helped shift organization studies from the "Newtonian style" of abstract formalism, or what philosopher Stephen Toulmin calls "the decontextualized ideal", according to which the sciences at large, and organization studies in particular, should search for the universal, the general and the timeless. The Newtonian style is acontextual and ahistorical: contextual influences upon the phenomenon under study must be turned off so that its intrinsic properties may be reveled; time is reversible, and prediction is symmetrical with explanation. The Newtonian style seeks to dispense with the contingent experience of empirical diversity to identify, under controlled conditions, universal principles. The style of thinking that underlies March and Weick's work is different. It resonates with developments in strands of traditional cybernetics and systems thinking, secondorder cybernetics and, more recently, chaos and complexity science, autopoietic systems, and post-modern philosophy. According to Toulmin, post-War intellectual, social and technological developments made it increasingly possible to challenge the reductionism involved in the Newtonian ideal and articulate what he calls the "ecological style", a style of thinking that embraces complexity by reinstating the importance of the particular, the local, and the timely. The ecological style acknowledges connectivity, recursive patterns of communication, feedback, nonlinearity, emergence, tacitness, change.

From an ecological perspective, organizational phenomena are seen to consist not of dissociated collections of parts but of wholes emerging out of the interactivity of constituent parts, embedded in broader wholes, especially societal institutions, interorganizational fields, and technological paradigms. Organization is not only imposed from outside but is also immanently generated from within – self-organization is an irreducible feature of social systems. The patterns we observe are crucially shaped by initial conditions and path-dependent processes. Organizations cannot escape finitude, historicity and circularity: they reproduce the beliefs and institutional practices of the societies in which they are embedded. Interacting with their environments, organizations do not confront independent, meaning-free entities but engage in processes whereby organizations create opportunities for understanding themselves, and, in so doing, they shape their links with other organizations in their own image. Individual as well as organizational action is never purely instrumental – it is highly performative. Organizational members are not presented with objective problems but they actively construct the problems they face through the application of the symbols, categories, labels and assumptions contained in the tools they use and the practices they draw upon. Change is not an epiphenomenon, but deeply involved in the generation of stability. Novelty is not an exception but immanent in the carrying out of routine action. Improvisation is not an optional extra but permeates rule-governed behavior. Situatedness matters. Materiality cannot be discounted. Time and irreversibility are generative of new forms. Unintended consequences cannot be ignored. Chance and contingencies are critical.

Unlike the Newtonian style, therefore, the ecological style seeks to embrace complexity rather than reduce it; it is sensitive to process, context and time; it makes links between abstract analysis and lived experience; is aware of the realityconstituting (as opposed to merely representational) role of language; accepts chance, feedback loops, and human agency as fundamental features of social life; acknowledges the social and bodily embeddedness of cognition; seeks to make connections between hitherto opposed notions, such as structure vs. agency, mind vs. body, individuality vs. sociality, organization vs. environment, ideas vs. objects, abstraction vs. materiality, mind vs. body, thinking vs. practice, substance vs. process, knowable vs. unknowable, explicit vs. tacit, rationality vs. politics, substantive vs. symbolic, formal knowledge vs. experiential knowledge, system vs. lifeworld.

The commanding vision of the ecological style is, to use Gregory Bateson's language, to establish a new unity between mind and nature, or, in Toulmin's terms, a new cosmopolis. Such an aspiration naturally places a high premium on interdisciplinarity, theoretical cross-fertilization, and conceptual connectivity. The interconnectedness of the phenomena we study needs to be reflected in disciplinary interconnectedness. Only complexity can cope with complexity.

In the Fourth Organization Studies Summer Workshop we aim at exploring further the implications of the ecological style of thinking about organizations and how it might be incorporated in organizational research. Topics and issues may indicatively include the following:

Modeling organizations as: complex adaptive systems, far-from-equilibrium systems • Connectionist images/models of organizations • Organizations as living systems • Understanding: path-dependencies; emergence; recursiveness; and embeddedness in organizational phenomena • Secondorder cybernetics, autopoiesis and cyber-semiotic perspectives in organization studies • How order is generated and sustained in social systems • Conceptualizing organizational complexity • How organizations cope with complexity – Understanding organizational change and strategy making in complex terms • Rethinking: rationality; cognition; and power in organizations in complex terms • Herbert Simon, complexity and organization design – Austrian economics, complexity and firms • Chaos & complexity science and organization studies: More than metaphor? • Self-organization in social systems • Routine and novelty in organizations • Ecological communication and organizations • Time, history and complex organizational behavior – Complex theorizing of complex organizations • Capturing complexity through appropriate research designs • The ecological style and post-rationalist philosophy • Phenomenology, pragmatism, process philosophy and complex thinking in organization studies • Complexity and practical reason: Enhancing practitioners' complex thinking • Complexity, ecological understanding and narratives – Complexity, language and aesthetics • Organization studies as a science of qualities.

lunedì, dicembre 17, 2007

Anniversari incrociati: Gramsci e Veblen

Thorstein B. Veblen (1857-1929)

Quest'anno cadono gli anniversari di due grandi pensatori, Veblen (150° della nascita) e Gramsci (70° della morte). Gramsci cita l'economista americano nei suoi Quaderni del carcere, commentando un articolo scritto da Masoero, dedicato appunto al pensiero di Veblen. Il dirigente comunista si rende conto, sulla base della sintesi che ha potuto consultare, che alcuni concetti sviluppati da Veblen sono stati fraintesi nel libro La gioia del lavoro del socialista belga Henry De Man (oggetto della sua attenzione in questa parte dei Quaderni). In qualità di recluso nelle carceri fasciste, Gramsci è spesso costretto a ricorrere nei suoi lavori all'uso di fonti indirette, nonostante l'amico Sraffa si periti di fargli avere libri e riviste che lo tengano aggiornato. Grazie al saggio di Masoero (puntuale, come nota Foresti [1], nel dare conto dell'opera dell'economista americano), Gramsci riesce tuttavia a cogliere alcuni aspetti connotativi del pensiero vebleniano, come la concezione evolutiva dell'economia, il peculiare uso del concetto di “istinto” per spiegare l'innovazione tecnica nelle imprese (instinct of workmanship) e l'originale tentativo di ricorrere alle categorie dell'antropologia culturale per dare corpo ad una scienza della società concretamente fondata. La sua indicazione del positivismo quale matrice filosofica e metodologica del pensiero di Veblen è però errata: esso è debitore, come mostra Hodgson [2], di Kant e dei pragmatisti americani (James in primo luogo). L'incolpevole Gramsci intravede inoltre il darwinismo sociale di Spencer dietro l'evoluzionismo di Veblen: in realtà, le due concezioni evolutive sono non soltanto diverse, ma anche contrapposte, in rapporto all'oggetto della selezione: per Veblen, infatti, sono selezionati gli “oggetti sociali”, i “valori”, i “costumi”, le “idee”, ciò che costituisce la dimensione culturale e istituzionale di una società, mentre Spencer vede nel conflitto sociale l'occasione per sancire la vittoria dei gruppi e degli individui più forti (o più adatti) all'interno di una teorizzazione giustamente tacciata di razzismo. Veblen elabora il primo vero pensiero critico della società americana nel pieno della sua tumultuosa crescita capitalistica; Spencer, al contrario, giustifica il mantenimento di un sistema fondato sullo sfruttamento, le disuguaglianze e le discriminazioni in nome dell'efficienza. Questa forte impostazione critica del pensiero vebleniano ha indotto Gramsci a riconoscervi un'influenza marxiana. E' vero che Veblen conosceva l'opera di Marx e i successivi contributi dei marxisti, per esserne stato un attento recensore e critico, però ha sviluppato una teoria dell'economia non assimilabile all'impianto marxiano, data l'importanza che attribuisce alle istituzioni nel guidare le attività economiche (c'è dunque una sorta di rovesciamento dello schema causale struttura-sovrastruttura di Marx). Veblen, utilizzando un criterio classificatorio attuale, sarebbe in effetti considerato un radical, ma di genere non marxista. Nel passo di Gramsci che riportiamo qui di seguito, resta sullo sfondo il tema dell'ascesa della grande impresa fordista, con l'applicazione dei metodi tayloristici di organizzazione aziendale, la ricerca di una pianificazione della produzione e del consumo capace di risolvere le irrazionalità del mercato “autoregolato” (messe in evidenza dagli effetti devastanti della “grande depressione”) e il ruolo assunto dai tecnici nella gestione di questi cambiamenti, anche in rapporto alla politica: questioni aperte sulle quali si discuteva accanitamente tanto nel campo capitalista quanto in quello del comunismo sovietico (sul tema cfr. Salsano[3]).

Note:

  1. La relazione di Tiziana Foresti, Thorstein B. Veblen in Italia nella prima metà del Novecento: prospettive storiografiche, è stata presentata alla VIII Conferenza dell'AISPE (Associazione Italiana per la Storia del Pensiero Economico): “Economics and Institutions. Contributions from the History of Economics”, tenutasi all'Università di Palermo dal 30 settembre al 2 ottobre 2004. E' molto interessante perché mostra il tentativo di utilizzare Veblen per dare consistenza teorica al corporativismo fascista, attraverso una lettura distorta del suo pensiero.

  2. Geoffrey Hodgson dedica all'economia istituzionalista di Veblen l'intera Parte III del suo libro The Evolution of Institutional Economics. Agency, structure and Darwinism in American Institutionalism, London and New York: Routledge, 2004, che è probabilmente, ad oggi, lo studio contemporaneo più rilevante dedicato all'istituzionalismo americano.

  3. Ingegneri e politici. Dalla razionalizzazione alla «rivoluzione manageriale», Torino: Einaudi, 1987, raccoglie tre saggi nei quali Alfredo Salsano, attento studioso di Karl Polanyi, impegnato nel movimento anti-utilitarista fino alla sua prematura scomparsa, ha studiato il rapporto fra “razionalità” dei tecnici (o dei managers) e “razionalità” dei politici (o dei governi) che si è instaurato a partire dalla crisi mondiale degli anni '30 del Novecento: le posizioni dei planisti (come De Man), lo studio del ruolo esercitato dagli ingegneri nelle imprese (Veblen), la crescita di una classe di tecnocrati / burocrati (Rizzi e Burnham) sono i principali temi illustrati in questo breve ma denso libro.

Antonio Gramsci (1891-1937)

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Volume secondo, Quaderni 6-11 (1930-1933), edizione critica dell'Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino: Einaudi, 2007, pp. 880-81.


Henri De Man. Da un articolo di Arturo Masoero, Un americano non edonista (in «Economia» del febbraio 193 l) risulta che molte opinioni esposte dal H. De Man nella Gioia del lavoro e quindi anche in altri suoi libri, sono prese dalle teorie dell' economista americano Thorstein Veblen, che ha portato nella scienza economica alcuni principii sociologici del positivismo, specialmente di A. Comte e dello Spencer: il Veblen vuole specialmente introdurre l'evoluzionismo nella scienza economica. Così troviamo nel Veblen l'«instinct of workmanship», che il De Man chiama «istinto creatore». W. James nel 1890 aveva esposto la nozione di un istinto costruttivo («instinct of constructiveness») e già Voltaire parlava di un istinto meccanico. (Cfr questa grossolana concezione dell'«istinto» del De Man con ciò che scrive Marx sull'istinto delle api e su ciò che distingue l'uomo da questo istinto). Ma pare che il De Man abbia preso dal Veblen anche quella sua mirabolante e grossolana concezione di un «animismo» negli operai su cui tanto insiste nella Gioia del lavoro. Cosi il Masoero espone la concezione del Veblen: «Presso i primitivi l'interpretazione mitica cessa di essere un ostacolo e spesso diventa un aiuto per ciò che riguarda lo sviluppo della tecnica agricola e dell'allevamento. Non può che giovare, infatti, a questo sviluppo il considerare come dotati di anima o addirittura di caratteri divini le piante e gli animali, poiché da una simile considerazione derivano quelle cure, quelle attenzioni che possono portare ai miglioramenti tecnici e alle innovazioni. Una mentalità animista è invece decisamente contraria al progresso tecnico della manifattura, all'esplicarsi dell'istinto operaio sulla materia inerte. Cosi il Veblen spiega come, all'inizio dell'era neolitica, in Danimarca la tecnica agricola fosse già tanto avanzata mentre rimase nullo per lungo tempo lo sviluppo della tecnica manifatturiera. Attualmente l'istinto operaio, non più ostacolato dalla credenza nell'intervento di elementi provvidenziali e misteriosi, va unito a uno spirito positivo e consegue quei progressi nelle arti industriali, che sono propri dell'epoca moderna».

Il De Man avrebbe preso così dal Veblen l'idea di un «animismo operaio» che il Veblen crede esistito nell' età neolitica, ma non più oggi e l'avrebbe riscoperto nell'operaio moderno, con molta originalità.

È da notare, date queste origini spenceriane del De Man, la conseguenzialità del Croce che ha visto nel De Man un superatore del marxismo ecc. Tra Spencer e Freud, che ritorna ad una forma di sensismo più misterioso ancora di quello settecentesco, il De Man meritava proprio di essere esaltato dal Croce e di vedersi proposto allo studio degli italiani intelligenti. Del Veblen è annunziata la traduzione in italiano per iniziativa dell'on. Bottai. In ogni modo in questo articolo del Masoero si trova in nota la bibliografia essenziale. Nel Veblen si può osservare, come appare dall'articolo, un certo influsso del marxismo. Il Veblen mi pare che abbia avuto anche influsso nelle teorizzazioni del Ford.

venerdì, marzo 02, 2007

Metodi di ricerca qualititiva

Propongo una risorsa utile per introdurre il tema dei metodi di ricerca qualitativa.

Research Methods

Material in this page was produced for Research Method day held at Sjökulla 26.11.2001.
All slides are in Power Point format and all documents are in MS Word format.

Constructive Research

Slides

Constuctive Research
Authors: Casper Lassenius, Jari Vanhanen, Timo Soininen.
Refences:
[1] Kasanen, Eero, Lukka Kari, and Arto Siitonen. 1993. The Constructive Approach in Management Accounting Research. Journal of Management Accounting Research, 5 (1), pp. 243-263.
[2] Shaw, M. 2001. The Coming-of-Age of Software Architecture Research. Proceedings of ICSE-2001, pp. 657-664. Los Alamitos, CA: IEEE Computer Society Press.

Case Study

Documents

Case Study Research
Author: Jarkko Pyysiäinen
References:
[1] Robert K. Yin. 1994. Case Study Research Design and Methods

Building Theories from Case Study Research
Author: Mika Mäntylä
References:
[1] Kathleen Eisenhardt. 1989. Building Theories from Case Study Research. Academy of Managament Review Vol. 14 No. 4 pp. 532-550

Designing Case Studies
Author: Mika Mäntylä
References:
[1] Colin Robson. Real World Research pp. 146-166

Case Study (Patton, Keating) & Case Study Method
Author: Maria Paasivaara
References:
[1] Keating, Patrick J. A Framework for Classifying and Evaluating the Theoretical Contributions of Case Research in Management Accounting. Journal of Management Accounting Research, Fall 1995, Volume 7.
[2] Patton, Michael Quinn. Qualitative Evaluation and Research Methods. Second edition, Sage Publications, 1990.
[3] Case Study Method. Edited by Roger Gomm, Martyn Hammersley, and Peter Foster, Sage Publications, 2000

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Case Study Research
Authors: Maria Paasivaara, Jarkko Pyysiäinen, Mika Mäntylä
References:
[1] Keating, Patrick J. A Framework for Classifying and Evaluating the Theoretical Contributions of Case Research in Management Accounting. Journal of Management Accounting Research, Fall 1995, Volume 7.
[2] Patton, Michael Quinn. Qualitative Evaluation and Research Methods. Second edition, Sage Publications, 1990.
[3] Case Study Method. Edited by Roger Gomm, Martyn Hammersley, and Peter Foster, Sage Publications, 2000
[4] Robert K. Yin. 1994. Case Study Research Design and Methods

Action Research

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Action Research
Author: Kristian Rautiainen, Soile Pohjonen
References:
[1] Cummings, Thomas G., and Huse, Edgar F., Organization Development and Change. 4th edition, 1989. (Kirjastossa, en muista oliko Kauppis vai TuTa)
[2] Handbook of Action Research, Peter Reason and Hilary Bradbury (editors), Sage Publications, 2001. (TuTan kirjastossa)
[3] Schein, Edgar H., Process Consultation Volume II: Lessons for Managers and Consultants. Addison-Wesley, 1987. (Jarnolla henkilökohtainen kirja hyllyssä)
[4] Stringer, Ernest T., Action Research. 2nd edition, Sage Publications, 1999. (Catalla kirja hyllyssä)

Qualitative Interviewing

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Qualitative Interviewing
Author: Maaret Pyhäjärvi
References: ?

Constructing questions for interviews & questionnaires
Author: Mikko Raatikainen
References:
[1] William Foddy, Theory and practice in social research

Analysis and Interpretation of Qualitative Data

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Summary on Analysis and Interpretation of Qualitative Data
Authors: Jarno Vähäniitty, Kerttuli Visuri
References:
[1] Miles, M., Huberman, M.: Qualitative Data Analysis. Sage 1994.
[2] Eskola, J., Suoranta, J.: Johdatus laadulliseen tutkimuseen, Vastapaino 2000.
[3] Järvenpää, E., Kosonen, K.: Johdatus tutkimusmenetelmiin ja tutkimuksen tekemiseen, TKK/Libella 1997.

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Analysis and Interpretation of Qualitative Data
Authors: Jarno Vähäniitty, Kerttuli Visuri
References:
[1] Miles, M., Huberman, M.: Qualitative Data Analysis. Sage 1994.
[2] Eskola, J., Suoranta, J.: Johdatus laadulliseen tutkimuseen, Vastapaino 2000.
[3] Järvenpää, E., Kosonen, K.: Johdatus tutkimusmenetelmiin ja tutkimuksen tekemiseen, TKK/Libella 1997.

lunedì, dicembre 04, 2006

BAZAAR GOVERNANCE

Il fenomeno open source è esploso negli ultimi anni grazie al successo del sistema operativo Linux. E' un modo di lavorare (essenzialmente basato su internet) che ha permesso ad un'ampia e sempre differenziata comunità di programmatori di mettere in comune alcune risorse (per es. il codice sorgente del software) sulla cui base sviluppare nuove soluzioni, attraverso un processo evolutivo per prove ed errori che finora si è dimostrato molto efficace. Il frutto di questo lavoro partecipativo (tipico esempio di quella che Pierre Lévy ha definito "l'intelligenza collettiva") non esclude la possibilità di un distribuzione commerciale (a patto di mantenere ferme le regole della licenza GPL, GNU General Public Licence), ma si presta altrettanto bene per una distribuzione gratuita o ad offerta, della quale possono beneficiare le scuole, le comunità a basso reddito, le pubbliche amministrazioni alle prese con problemi di bilancio.


L'economia della open source è oggi l'oggetto di numerosi studi che hanno l'obiettivo di capire come riesca a funzionare un sistema nel quale la competizione per il profitto, l'individualismo egoistico, la gelosa difesa della proprietà intellettuale, l'accentramento della progettazione (per es. nelle grandi corporations dell'industria del software) sono stati accantonati per fare spazio alla condivisione delle risorse, alla cooperazione, alla comune tensione verso il miglioramento del prodotto, all'estrema personalizzazione delle soluzioni (indice di un altissimo decentramento).


Uno studio recentissimo è stato pubblicato nel numero 10/2006 di Organization Studies. Si tratta della ricerca -- di impianto neoistituzionalista (economia dei costi di transazione) -- realizzata dai francesi Benoit Demil e Xavier Lecocq, intitolata "Neither Market nor Hierachy nor Network: The Emergence of Bazaar Governance". Il suo interesse sta nel fatto che in modo molto chiaro esplora i meccanismi istituzionali ed organizzativi che consentono agli operatori del mondo open source di lavorare insieme, mantenendo le caratteristiche di cui ho accennato in precedenza.

Clifford Geertz (1926-2006)


I due autori battezzano questa forma di regolazione, basata sul contratto GPL, con il nome di bazaar governance (in omaggio allo studio sull'economia informale di un villaggio marocchino condotto negli anni '70 dall'etnologo Clifford Geertz -- e qui il cortocircuito fra tradizione e futuro è molto suggestivo). Dal confronto con il mercato, la gerarchia e la rete, strutture di governo alternative delle relazioni fra i membri di un sistema economico, emerge che la bazaar governance si regge su fondamenta quali il basso controllo e la ridotta intensità di incentivazione (a partire dal contratto GPL), che gli economisti ortodossi definirebbero parecchio labili, evanescenti, pericolosamente in bilico fra il fallimento e un funzionamento assai zoppicante. Un Galileo economista dovrebbe però esclamare, ancora una volta: Eppur si muove!

Per approfondire:

  • [abstract] Benoit Demil e Xavier Lecocq (2006), "Neither Market nor Hierachy nor Network: The Emergence of Bazaar Governance", Organization Studies, vol. 27, n. 10, pp. 1447-1466.; una versione più ampia dell'articolo [inglese, .pdf] si trova nell'area open source del MIT.

  • Che cos'è il sistema open source? Che cos'è la licenza GPL (GNU General Public Licence)? Prime risposte su Wikipedia.it alle voci Open source - Licenze open source - GNU General Public Licence (da notare che la comunità Wiki è un esempio fra i più riusciti di lavoro aperto alla più ampia partecipazione internettiana). La "madre" di tutte le licence GPL è al sito GNU [in inglese].

  • Che cos'è "l'intelligenza collettiva" di Pierre Lévy? Intervista su MediaMente.

sabato, novembre 04, 2006

CONVENZIONI ALLA FRANCESE

Léon Walras (1834-1910)

La "scuola francese delle convenzioni" ha sviluppato negli ultimi anni uno degli approcci economici più interessanti allo studio delle istituzioni, in contrapposizione diretta alle ipotesi neoclassiche riguardanti la razionalità degli agenti economici e il funzionamento dei mercati.
Nel marzo 1989 la prestigiosa Revue économique ha interamente dedicato il proprio numero alla "economia delle convenzioni". Lo trovo spesso citato ma in genere è di difficile reperibilità. Con uno dei miracoli che la "rete" ci propone di tanto in tanto, siamo ora in grado di colmare la lacuna. Possiamo infatti leggere questo numero monografico attraverso il portale Persée, creato dal Ministero dell'educazione nazionale, dell'insegnamento superiore e della ricerca, per mettere a disposizione del pubblico interessato una buona fetta della produzione francese relativa alle scienze sociali e umane.

Emile Durkheim (1858-1917)

Favorendo la circolazione del sapere oltre le mura delle accademie, la Francia continua a restare fedele alla tradizione di Durkheim e Walras, ed è tuttora in grado -- non casualmente -- di rinnovare il dibattito delle scienze sociali con presenze stimolanti, dalle sociologie di Bourdieu, Boudon, Crozier e Latour, all'economia della regolazione di Boyer e Aglietta.
Quanto deve imparare l'Italietta pasticciona e inconcludente dai cugini d'oltralpe! (Ma per un bell'esempio da imitare, basterebbe volgere lo sguardo al sito www.sardegnacultura.it della regione Sardegna, eccellente raccolta di informazioni e testi che illustra il sapere sviluppato nei secoli dal mio popolo.)

Da leggere:
J.P. Dupuy, F. Eymard-Duvernay, O. Favereau, A. Orléan, R. Salais, L. Thévenot, "L'économie des conventions", numero speciale della Revue Économique, vol. 40, n. 2, 1989.