sabato, febbraio 04, 2012

Il pluralismo delle istituzioni economiche come "bene comune" da difendere.

Oliver Williamson, uno dei fondatori della Nuova economia istituzionale, ha contribuito a dimostrare che il mercato non è l'unica e indiscutibile modalità di regolazione degli scambi economici. A certe condizioni i meccanismi organizzativi e la cooperazione sociale sono più efficienti.

LA CONCORRENZA È VERAMENTE UN VALORE ASSOLUTO NELLA SFERA DELL’ORGANIZZAZIONE ECONOMICA?
di Lorenzo Sacconi, nel Merito, newsletter di economia, 03 febbraio 2012 [tagli e titoletti sono stati realizzati dalla Redazione del blog]

Nella lettura delle liberalizzazioni promosse dal governo mi pare ci sia troppo ottimismo sul significato di principio dei provvedimenti, e anche quando si fanno critiche sui provvedimenti particolari non lo si faccia abbastanza o per le giuste ragioni. Certo si può dare una valutazione tecnica dal punto di vista del singolo criterio della promozione della concorrenza e del mercato (...), ma mi domando se questo debba essere l’unico criterio per valutare queste decisioni.

Mi spiego: siamo proprio sicuri, a proposito dell’articolo 41 della Costituzione, che le uniche limitazioni del principio della concorrenza debbano essere quelle generalissime riportate nel decreto (salute, sicurezza, libertà e dignità - come se il governo potesse fornire l’interpretazione autentica della costituzione stessa) e non anche altre, più contingenti? E quando invece la concorrenza dovesse essere limitata per proteggere l’ambiente e in generale i “beni comuni”, promuovere l’istruzione e la cultura, la ricerca scientifica di base, l’equità di trattamento degli interessi economici?

Sappiamo benissimo che il mercato concorrenziale è una soluzione istituzionale efficiente in certi contesti e non in altri. E allora perché assumere la concorrenza come l’unica forma di organizzazione dell’attività economica, tranne che per pochi beni essenziali? Spesso potrebbe essere il benessere economico stesso a consigliare alcune limitazioni della concorrenza, come d’altra parte emerge dalla stessa prosecuzione di questo commento.

Non a caso la Costituzione pone l’utilità sociale (social welfare?) come prima ragione di contrasto da evitare nell’esercizio della libertà economica (pudicamente citata solo in fondo alla lista e in forma condizionale nel decreto) e attribuisce alla legge il compito di stabilire programmi e controlli opportuni a garantire che l’attività economica in genere sia indirizzata e coordinata a fini sociali.

Cosa c’è che non va in queste espressioni? La loro interpretazione potrebbe essere più flessibile che non quella (fuori moda) di “programmazione economica”. Potrebbe invece avere a che fare con la regolamentazione e nuove forme di auto-regolamentazione sociale delle attività economiche: ad esempio consentire iniziative pubbliche volte al coordinamento tra imprese e stakeholder [individui o gruppi portatori di interessi che dipendono dall'impresa per la realizzazione dei loro obiettivi (soci di maggioranza e di minoranza, lavoratori dipendenti, collaboratori autonomi, clienti, fornitori, finanziatori, parti sociali). Fonte: Garzantina di Economia. N.d.R.] che permettano l’emergere della responsabilità sociale di impresa, favorendo forme di verifica indipendente da parte di soggetti terzi, appartenenti al terzo sottore, cui siano dati i mezzi per avere significativi effetti di reputazione.

Queste “istituzioni” potrebbero intervenire una volta che standard siano stati concordati, sempre attraverso forme di “coordinamento” tra imprese e loro stakeholder, supportate da qualche iniziativa legislativa. Perché dovremmo rinunciarvi? E comunque può un decreto legge fare dimenticare questa parte della Costituzione?

LA QUESTIONE DELLA LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI.

Veniamo ora alle professioni. D’accordo, eliminare le tariffe, che per altro non sono già più vincolanti, toglie all’ordine professionale la possibilità di una forma di collusione/coordinamento esplicito sulla formazione dei prezzi. Ma il decreto contiene anche l’obbligo della presentazione di un preventivo dettagliato circa la prestazione e i prezzi. Si può fare?

Se le professioni liberali in nessuna parte del mondo sono mai state trattate alla stessa stregua di altri beni e sevizi, una ragione c’è e non è la rimanenza dei poteri corporativi del medioevo o la peculiare struttura sociale italiana. E’ che in larga misura la relazione professionale è un contratto incompleto su un “credence good” con una significativa componente di delega di discrezionalità al professionista che va oltre la mera asimmetria informativa (che pure esiste).

Fare il preventivo analitico della prestazione e del suo costo, contenente tutti i gli oneri ipotizzabili, che possono emergere dall’inizio alla fine della prestazione, in un contratto incompleto che va soggetto ad eventi imprevisti e a non osservabilità della qualità della prestazione è come dire che si vuole far finta che la relazione professionale sia una cosa diversa da quello che è. Siccome il contratto è incompleto, ciò implica che certe situazioni “non sono ipotizzabili”. Così il risultato sarà che, secondo il potere contrattuale delle parti, ora il professionista ora il cliente (di norma un’impresa) potranno sfruttare i benefici dell’inevitabile emergere delle falle del preventivo (contratto) e della ricontrattazione opportunistica.

Ovviamente tutto ciò a maggior vantaggio degli agenti più forti nel mercato (non necessariamente i professionisti, di sicuro mai loro clienti individuali, spesso le imprese, se di grande dimensione).

Non a caso l’ultima versione del decreto parla di parametri di riferimento stabiliti dal ministero, che ovviamente non potranno che riferirsi al precedente storico delle tariffe. Il ricorso a parametri è inevitabile perché l’incompletezza contrattuale non può che essere disciplinata con principi generali di riferimento ex ante, creando così aspettative alla luce dei quali valutare l’adeguatezza dei comportamenti ex post, dalle quali valutazioni può poi discendere un giudizio reputazionale. Ma con i parametri, le tariffe uscite dalla porta reiterano dalla finestra.

Senza contare poi che l’idea di preventivo cozza contro precedenti innovazioni, per altro assai criticabili (poiché favoriscono comportamenti opportunistici – come ho ampiamente argomentato altrove), come l’introduzione dei patti in quota lite, che furono salutati come coerenti con l’introduzione della concorrenza nelle professioni, ma che introducono necessariamente l’aleatorietà del compenso.

Come sappiamo, invece, la soluzione dei problemi legati all’incompletezza del contratto professionale è rendere efficaci i doveri fiduciari del professionista nei confronti del cliente e perciò rendere efficiente la deontologia professionale che stabilisce e impone l’osservanza dei doveri fiduciari.

La soluzione sarebbe perciò nel separare la gestione attuativa della deontologia (commissioni di disciplina) dagli ordini e rivedere il contenuto stesso dei codici di etica professionale, cioè intervenire sia nel contenuto che nelle procedure attuative della deontologia promuovendo un approccio basato non solo sull’autogoverno ma sul coinvolgimento degli stakeholder dei professionisti – ma sempre in una logica di self-regulation e di “autonomia” della sfera sociale.

Non mi pare che di tutto ciò se ne parli, ed è ovvio che non lo si faccia. Occuparsi di buon funzionamento della deontologia è fuori dalle corde della semplice promozione della libera concorrenza. Inevitabilmente l’etica professionale fissa limiti a certe pratiche concorrenziali, nell’interesse del cliente e della società (anche quando non è in gioco la salute, la sicurezza, la dignità e la libertà, ma ad esempio può esser in gioco l’interesse economico delle parti ad un giusto risarcimento).

D’altra parte, è stato pure ventilato (ma per fortuna non inserito in questo decreto) un intervento sulla creazione di società di capitale nei servizi professionali, ovvero che il socio di capitale possa essere l’azionista di controllo di uno studio professionale. Questo sì allora limiterebbe la funzione delle professioni nella produzione di beni pubblici, che è alla base storicamente dell’esistenza degli “ordini professionali” (e delle stesse gilde commerciali nell’epoca del rinascimento - come sanno gli storici economici e i microeconomisti più sofisticati) e renderà l’avvocato un dipendente di soggetti privati che difenderà senza cura alcuna delle esternalità negative della sua azione, mancando della necessaria indipendenza e imparzialità di giudizio nei confronti della controparte, dei terzi e della corte.
E non si capisce bene con quale beneficio per i consumatori, se non quelli in grado di controllare direttamente o indirettamente la law firm.

Francamente, allora, io vedrei meglio, piuttosto, cooperative di professionisti e consumatori (paritetiche?) per la produzione di servizi legali a prezzo contenuto ed elevata qualità per una grande quantità di soci/clienti.

In questo caso insomma una limitazione della libertà economica e una regolamentazione delle forme di impresa, con la difesa del partnership e promozione della forma cooperativa (attenzione, questo non esclude il socio di capitale se non è un socio di controllo) apparirebbe giustificata, per ragioni di benessere e protezione del “bene” giustizia. Purtroppo la “giustizia” specie quella civile, non è citata tra quei beni richiamati del decreto a proposito dell’ art. 41 Cost.

LIBERALIZZAZIONI E TASSISTI.

Infine, i taxi. Qui condivido la tesi (critica) che il vero problema non trattato, ma già emerso ai tempi del decreto Bersani, sia quello del struttura industriale. Ma allora che c’entra la concorrenza in questo caso? Si tratta di favorire l’integrazione orizzontale tra i taxisti, e quindi di ridurre la concorrenza tra loro, e favorire una maggiore concentrazione dal lato dell’offerta.

Qui stiamo dunque parlando di meno concorrenza, e in un caso in cui non è di certo coinvolto uno di quei beni fondamentali.

Ma c’è un altro punto. Come si fa a spingere a integrarsi i piccolissimi imprenditori/artigiani di taxi, passando da una posizione autonoma a quella di lavoratori dipendenti? E perché loro dovrebbero trovarlo vantaggioso? Ecco un altro caso in cui bisogna allargare l’orizzonte rispetto alla sola promozione del valore della concorrenza e del mercato concorrenziale come istituzione economica, e considerare che altri principi per le istituzioni economiche potrebbero essere necessari, tipicamente forme “cooperative”.

Infatti, l’unico modo di promuoverne l’integrazione è l’aggregazione dei taxisti in cooperative, che consentano il nascere di imprese in grado di sfruttare i benefici dell’organizzazione e della dimensione per aumentare l’offerta, senza che i taxisti debbano perdere il controllo, ma potendolo esercitare collettivamente in forma di cooperativa di lavoro.

Ma se la cooperazione è un’ istituzionale economica importante per l’esercizio delle attività economiche, allora non è vero che la concorrenza sia l’unica istituzione economica da proteggere, anche quando non sono coinvolti quei beni ultrafondamentali, perché è ovvio che concettualmente tra concorrenza e cooperazione c’è esattamente una relazione di esclusione reciproca anche se non assoluto contrasto in via di fatto.

E’ vero infatti che si può cooperare all’interno, e competere all’esterno dell’impresa. Ma l’organizzazione interna di fatto sostituisce in quello spazio interno il mercato e la concorrenza con un principio alternativo di tipo cooperativo.


L'IDEA DEL TRIBUNALE DELLE IMPRESE E L'ABOLIZIONE DELL'AGENZIA PER GLI ENTI NON PROFIT.

Proprio per questo – sia detto per inciso - è lungimirante, la costituzione del tribunale delle imprese che in realtà, ma non lo posso qui argomentare, potrebbe rendere inutile tutta la retorica liberista sull’articolo 18 (visto che sono i ritardi della giustizia civile il vero deterrente perverso contro la crescita dimensionale, via fusioni, alleanze, cessioni del controllo ecc, delle imprese, cioè della sostituzione di mercato con “organizzazione interna”).

Al contempo però, a conferma della ristretta prospettiva sulle forme di organizzazione economica che caratterizza l’ideologia del governo, leggo che è stata decisa in questi giorni l’abolizione dell’agenzia per gli enti non profit, dimostrando grave sottovalutazione - o peggio cecità - rispetto alle forme di organizzazione economica alternativa a quelle dell’impresa capitalista operante sul mercato.

Insomma, per concludere, una volta che abbiamo appurato che il mondo reale delle istituzioni economiche è assai lontano dal modello della concorrenza perfetta, e che le istituzioni economiche sono molteplici per risolvere problemi vari in contesti differenti, quando si parla di concorrenza mi guarderei dall’affermare un valore assoluto.

Il giudizio per me è contingente e userei molto di più la parola “dipende”. Lascerei invece l’uso degli assoluti morali – cui sono molto affezionato - ai grandi principi liberali: eguaglianza, libertà e solidarietà (= cooperazione, non dimentichiamocelo!) .

Per approfondire:

Lucien Karpik (1989), “L’économie de la qualité”, Revue française de sociologie, XXX, pp. 187-210, (tr. it.: “L’economia della qualità”, Sviluppo & Organizzazione, n. 125, maggio-giugno, 1991).

[Nella foto, Lucien Karpik. Fonte: http://www.campus.de]

Sociologo dell'economia, docente all’Ecole des Mines di Parigi, mostra che il mercato dei servizi legali non funziona come un qualsiasi altro mercato dei beni. Il servizio fornito da un certo avvocato può essere difficilmente confrontato con quello di un altro: ognuno di essi possiede delle caratteristiche specifiche che lo rendono non misurabile e non replicabile. In questo caso, più che il livello dei prezzi della prestazione erogata, è di fondamentale importanza la sua qualità. La relazione avvocato-cliente, quindi, non è di natura puramente mercantile. In primo luogo, perché la natura complessa del contratto di fornitura del servizio legale richiede che vi sia un forte investimento fiduciario per far sì che le parti collaborino. In secondo luogo, perché in questi particolari mercati i prezzi perdono la loro funzione privilegiata di orientamento delle scelte. Infatti, la circolazione delle informazioni è garantita dal passaparola che coinvolge i clienti, un meccanismo che nel corso degli anni incide sul livello di reputazione dei singoli professionisti.

Lo studioso francese si è occupato di questi temi anche in un libro: Les avocats entre l’État, le marché et le public, 1274-1994, Gallimard, Bibliothèque des Sciences Humaines, Paris, 1995.


Lucien Karpik, L’économie des singularités, Paris, Gallimard, 2007.

Il mercato delle singolarità.
Una conseguenza di queste riflessioni sul mercato dei servizi professionali degli avvocati è la nascita di un nuovo approccio per la comprensione del funzionamento di quei mercati che Karpik definisce delle "singolarità". Le "singolarità" sono beni e servizi che non possono essere studiati con i metodi standard della scienza economica convenzionale, perché sono multidimensionali, incommensurabili, e di qualità incerta. Fra questi si possono annoverare le opere dell'ingegno e della creatività umana, come i film, i romanzi, la musica, un dipinto o una scultura; i beni frutto di una conoscenza tacita sedimentata negli anni, come un particolare vino, un particolare cibo; i servizi professionali complessi come quelli dei medici e, appunto, degli avvocati. Il problema è come valorizzare questa "unicità". Karpik costruisce un modello teorico destinato a spiegare questa importante classe di prodotti e mercati, finora trascurata dal pensiero economico mainstream. Un meccanismo fondamentale per il funzionamento dell'economia delle singolarità è la formazione del "giudizio" su questi beni "unici" da parte dei consumatori: interviene nella decisione non più (esclusivamente) il prezzo, bensì una gamma di canali di informazione, sia formali , come le guide gastronomiche tipo Michelin e Slow Food, che informali, come le opinione espresse nei forum da chi ha sperimentato il prodotto o il servizio.

Una nota di lettura molto approfondita del libro è apparsa sulla Revue de la régulation, scritta da Nicole Azoulay. Sulla stessa rivista si può leggere la risposta di Karpik.

La Revue française de sociologie (vol. 49, n. 2 del 2008) ha dedicato una sua sezione alla discussione del modello di Karpik, con interventi di Jean Gadrey, Jérôme Gautié e dello stesso Karpik.

Per una breve presentazione di Karpik e dei suoi lavori, vedi: http://cespra.ehess.fr/document.php?id=707

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