venerdì, aprile 13, 2007

Primo Levi e il mondo della "chiave a stella"

Primo Levi (1919-1987)
In ricordo di un grande scrittore, che con umanità e partecipazione ha raccontato il mondo del lavoro.

Se questa è la mia Torino. La fabbrica dimenticata

Primo Levi e l’ex Siva di Settimo, vi lavorò dal 1947 al 1975
di Mario Baudino - La Stampa.it
Quando vinse il premio Campiello con «La Tregua» lo aspettarono in sala mensa tutti insieme, i dipendenti della Siva, per fargli una grande festa. Finì che cantarono «Rosamunda», mentre lui sorrideva timido. Era il settembre del ’63, e la fabbrica chimica dove lavorò dal ’47 al ’75, diventandone molto presto direttore, viveva i suoi anni di grande espansione, il suo miracolo economico. Producevano smalti per rivestire cavi elettrici, stava al centro di un reticolo di manifatture analoghe che realizzavano i vari pezzi della filiera e vendeva in tutto il mondo: soprattutto in Unione Sovietica, con grande soddisfazione degli operai comunisti.

Quelli più «fedeli» potevano accogliere trionfalmente le delegazioni commerciali in trasferta dalla patria del socialismo, e all’occorrenza magari trafficare un poco in caviale del Volga. C’era un grande via vai, davanti ai cancelli di via Leinì 84, a Settimo Torinese, dove i camion cambiavano marcia per affrontare il sovrappasso sull’autostrada; il traffico era impetuoso, giovane e puzzolente, i fumi, gli odori, il rumore erano quelli dell’industria fordista, delle città fabbrica, della «chiavi a stella» e dell’orgoglio operaio. Oggi, a vent’anni dalla morte di Primo Levi - che com’è noto si tolse la vita nella sua casa di corso Re Umberto l’11 aprile dell’87, gettandosi dalla tromba delle scale - questo, fra tutti i luoghi dello scrittore, è forse il primo da visitare per misurare distanze e resistenze. Il ponte non c’è più, è stato sostituito da un immenso cavalcavia un centinaio di metri più oltre, e questo tratto di via Leinì si interrompe bruscamente davanti al muro della linea ad alta velocità. Non ci passa più nessuno, salvo gli abitanti del quartiere che se ne vanno a casa.

L'ex Siva di Torino

La fabbrica è chiusa dal ‘99. Resta l’edificio, con una savana di rovi e macerie all’interno del suo perimetro, a fronteggiare un giardinetto e un monumento ai partigiani. Tutti se la ricordano, però, l’ex Siva. Non tanto per Primo Levi, ma perché era un’istituzione. Negli anni qualcuno è passato a chiedere notizie dello scrittore, affacciandosi al «Caffé osteria da Gigi», proprio di fronte all’ingresso dello stabilimento, ma i gestori non hanno fatto in tempo a conoscerlo. Levi andò in pensione nel ‘75, ne è passato di tempo. Questo angolo dimenticato di Settimo sembra il monumento alla memoria cancellata, anche se in realtà esiste un progetto di trasformare la palazzina uffici in una sede del futuro «Centro Primo Levi», in sintonia con il Museo Diffuso della Resistenza e della Deportazione (a Torino, in via dei Quartieri), che ha organizzato diverse manifestazioni in città per ricordare l’autore di «Se questo è un uomo», fino a maggio. Sarà l’occasione anche per rivedere «Se questa è una fabbrica», un film documentario di Gianni Bissaca, che proprio nell’ex Siva aveva portato un suo spettacolo, «Sul fondo» da cui è nato il film. Bissaca si è innamorato di quei muri. Li conosce bene. Per esempio, ha scoperto il piccolo mistero degli ornamenti liberty che ingentiliscono la palazzina-uffici, costruita peraltro dopo la guerra: sono gli infissi e i balconi di una casa bombardata in via Cibrario. Chissà, forse era vicina al civico 65, dove nel 1916 morì Guido Gozzano; e non ci sarebbe da stupirsi, i grandi scrittori torinesi talvolta si mandano strani messaggi. Quello che ha lasciato Levi, qui, sul luogo della sua professione, è chiaro: «Per scrivere, non ho mai rubato un’ora al mio lavoro», ha ribadito più volte. Anzi, come testimoniò dopo il Campiello, il lavoro in fabbrica «era concreto e mi dava sicurezza... l’idea di lasciarlo e di dedicarmi a scrivere mi era lontana». Quand’era alla Siva non voleva distrarsi, anche se, come ripetono tutti, c’era quello sguardo che andava sempre lontano, indefinibile, smarrito. «Gli occhi non sorridevano», dice un’operaia nel film di Bissaca. Ma era la vita, quella. Primo Levi ci arrivò da un «fabbrica sul lago» (era la Duco di Avigliana, nell’area del dinamitificio Nobel), dove non lo facevano lavorare, dicendogli di stare tranquillo, lui appena tornato dall’inferno, e semmai leggere, o tradurre dal tedesco.

Trovò un curioso paesaggio, come ricorda Renato Portesi, suo collaboratore e amico: la fabbrica cui tutti i lettori hanno probabilmente associato il nome di Faussone, il protagonista di «La chiave a stella», era all’inzio quasi «bucolica». C’erano gli olmi e persino un ruscello di fronte all’ingresso, «dove stormivano pacifici anatroccoli». Uno guarda oltre la desolazione di oggi, fa uno sforzo, si disloca all’indietro e intuisce che sì, dev’essere stato un (cauto) amore a prima vista. Come tutti gli amori, non del tutto spiegabile.

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