mercoledì, settembre 12, 2007

Il lavoro fra organizzazione e mercato

Questo intervento di Anna Grandori -- direttore del Crora, Centro di ricerca sull'organizzazione aziendale della Bocconi, e docente presso la stessa università -- ha il pregio di fare chiarezza su una tematica dibattuta in modo spesso confuso e viziato da opposti ideologismi. Come dimostra l'autrice, il corpus teorico economico-organizzativo e i risultati empirici accumulati in questi ultimi anni offrono un quadro di riferimento non eludibile per esaminare laicamente la questione della flessibilità del lavoro.

L'impiego subordinato? E' più flessibile dell'atipico
Nello sviluppo moderno di carriera il tempo indeterminato significa sempre meno tempo lungo. La media è già inferiore ai cinque anni.


‘Flessibilità’ e ‘tipicità’ sono oggi termini molto, troppo, usati. In particolare, nell’acceso dibattito sui contratti di lavoro, entrambi sono diventati ideologicamente pesanti, oltre ad essere (o proprio perché sono) tecnicamente imprecisi.

L’idea apparentemente condivisa da tutte le parti, favorevoli o avverse che siano, suona così: il mercato è flessibile, l’organizzazione interna è rigida e burocratica; i contratti ‘esterni’ (perché temporanei o non di lavoro dipendente) sono più flessibili, quelli ‘interni’ (perchè ‘subordinato a tempo indeterminato’) più rigidi. Ma questa idea contiene due anomalie, o atipicità, economico-organizzative. Primo, considera solo la flessibilità numerica dell’organico e trascura quella funzionale; secondo, da per scontato che chi entra a tempo indeterminato permanga poi p
er un tempo indefinito o infinito...
Anna Grandori

L’idea che i contratti esterni rappresentino il massimo della flessibilità contrasta con la spiegazione della ragion d’essere del contratto ‘interno’ fornita dal tradizionale pensiero economico-organizzativo. Essa risiede proprio nella flessibilità funzionale del contratto interno: la possibilità di decidere ad hoc a quali compiti e attività lavorare. I diritti e le procedure con cui prendere queste decisioni possono variare – esse possono esser prese unilateralmente da parte del datore di lavoro (la relazione di ‘subordinazione’) o in forma di co-determinazione o di auto-determinazione del lavoratore. Quindi anche la dizione ‘lavoro subordinato’ appare riduttiva e inadeguata per i contratti interni.

Per contrasto, la rigidità funzionale dei contratti esterni sta proprio nella precisione nel definire le attività, i risultati attesi e i tempi di svolgimento dei progetti. Il fatto che le dinamiche interne alle relazioni industriali, nonché errori di job design, abbiano limitato i vantaggi di flessibilità dei contratti interni per le imprese rendendo l’organizzazione interna ‘meccanica’ anziché ‘organica’, è un fatto storico e contrario alla ragion d’essere dei contratti ‘interni’. Perciò, l’uso della nozione di flessibilità nel dibattito in corso è alquanto...inflessibile, unilaterale e ancorata a fatti storici presi come ‘assunti’.

La seconda anomalia consiste in una visione non aggiornata delle motivazioni al lavoro. Il tempo di permanenza medio dei lavoratori in una singola impresa è infatti in caduta libera, anche per loro scelta, ed è un fatto vistoso tra i lavoratori qualificati e i ruoli direttivi. Ma la propensione a cambiare ruoli di lavoro all’interno dell’impresa e tra imprese, come sviluppo professionale, è diffusa anche tra i lavoratori dipendenti esecutivi, anche a tempo indeterminato. La recente indagine del Crora Bocconi ‘Il lavoro contemporaneo: nuove dimensioni delle relazioni e dei contratti di lavoro’ conferma che la flessibilità del mercato interno del lavoro è possibile - e in effetti assai utilizzata nelle organizzazioni più efficaci - e che di per sé i contratti di lavoro a tempo indeterminato comportano sempre meno relazioni d’impiego a tempo indeterminatamente lungo – la media si sta avvicinando a un numero di anni che si contano sulle dita di una mano.

Ciò non significa, naturalmente, che il contratto di lavoro interno sia sempre il migliore e che quindi abbia senso considerarlo ‘tipico’. Anzi, anche questa opposta tesi, contiene varie atipicità o anomalie rispetto alla teoria economico-organizzativa: l’idea che i contratti di lavoro interno siano di un solo tipo; l’idea che le preferenze dei lavoratori siano a favore del lavoro dipendente classico, o che questo debba essere il ‘lieto fine’ di qualunque relazione di lavoro funzionante.

L’indagine del Crora mostra come la natura delle attività regolate dai contratti interni sia molto varia e poco differente da quella dei contratti esterni: fatto che poco giustifica la formalizzazione legale di un solo tipo di contratto interno e di una gran varietà di contratti esterni, e che genera dubbi sulla stessa demarcazione tra ‘interni’ e ‘esterni’. Inoltre, i dati sulle preferenze mostrano come i lavoratori possano essere sensibili a sofisticate compensazioni tra sicurezza d’impiego e assunzione di rischio retributivo, o viceversa di assunzione di rischio di impiego a fronte di indennizzi e garanzie di tipo retributivo. Che siano più teoricamente corretti e concettualmente flessibili i lavoratori che non molte teorizzazioni su di loro?

Fonte: Economia e società aperta. Forum internazionale, Milano 9/12 maggio 2007

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